I migliori film sono quelli che riescono a esporre i sentimenti e a raccontarli. Inside Out, a differenza degli altri, questo lo fa dalla prima scena e letteralmente. I protagonisti sono una versione antropomorfa dei sentimenti che abitano la mente di quella che è una bambina nel primo film, ed è diventata ragazzina in questo sequel. I sentimenti si dannano per lei, per il suo benessere, la sua stabilità e la possibilità di una vita serena. Si dannano nonostante la propria natura, cioè il loro essere tristi nel caso di Tristezza, disgustati da tutto nel caso di Disgusto e poi rabbiosi, spaventati o eccessivamente positivi e gioiosi, sembri portare a derive dannose. È in un certo senso l’essenza stessa della creatività Pixar, il principio che sta dietro al loro primo film, Toy Story: c’è intorno ai bambini (e qui per esteso intorno a tutti) un mondo che all’insaputa di tutti cerca di aiutarli e fare il loro bene. Un mondo, questa è la parte divertente, organizzato come il nostro.
Nel primo film Inside Out Riley, dopo aver cambiato città aveva una crisi di tristezza e finiva per scappare di casa, tutto motivato dal fatto che Gioia e Tristezza (i suoi sentimenti) erano finite fuori dal centro di controllo della sua mente e vagavano per tornare alla base, finendo a contaminare i ricordi e lasciando tutto in mano a Rabbia, Paura e Disgusto. Era una maniera di raccontare come crescere equivalga ad accettare che i ricordi possano essere contaminati di tristezza senza che questo sia un problema. Ora Riley ha 13 anni, una nuova vita, delle amiche e siccome è brava a hockey è stata presa per un camp di qualche giorno. Se va bene potrebbe entrare nella squadra che sogna. Purtroppo in quel momento scatta la pubertà e nella mente entrano nuove emozioni, Imbarazzo, Invidia, Ennui (il senso di noia adolescenziale) e quella che prenderà il potere: Ansia.
Lo scheletro è esattamente quello del primo film: alcuni sentimenti sono esiliati nella mente di Riley e devono tornare, mentre nella realtà lei passa un periodo di crisi e c’è il rischio che faccia qualcosa di grave o compromettente. Alla fine la morale anche sarà la medesima, cioè la necessità di accettare la complessità di sentimenti contrastanti, accogliere quelli peggiori per farli convivere con gli altri. E ovviamente non mancano le molte allegorie del funzionamento di una mente, dal caveau dove reprimere i sentimenti alla landa dei ricordi dimenticati per sempre fino al fiume del flusso di coscienza o alle voragini del sarcasmo. E funziona.
Per il resto, di nuovo, è la Pixar che fa ricorso alle sue strategie più provate. Anche l’idea di questa comunità di sentimenti non è diversa dalla comunità dei giocattoli: tutti con un caratteraccio, tutti con le loro specificità e tutti sempre in lotta per convivere pacificamente nonostante i desideri di emergere. Qui in più c’è il desiderio di giocare con stili di animazione diversi (c’è un personaggio in 2D a basso livello tecnologico, uno in grafica poligonale da vecchio videogioco e tutta una sequenza in stop motion fatta con ritagli di carta) e la presenza di un quasi-villain. Nonostante l’animazione contemporanea rifiuti la presenza di un cattivo nelle sue storie infatti, Ansia è la cosa che più ci si avvicina. Nonostante agisca convinta di fare il meglio per tutti è una forza negativa contro cui gli altri sentimenti, sempre più coalizzati, devono agire.
Novità molto esili e ben poco nuove che movimentano un film che ripete tutto quello che si può ripetere ma con una grazia infinita. C’è in Inside Out 2, di nuovo, un desiderio di comprendere l’animo umano e una programmatica dedizione ad abbracciare la complessità, che possiamo ignorare a livello conscio ma lo stesso agiscono a livello inconscio, costruendo il solito gran finale di risate e lacrime. Il tipo di ripetizione di cui non si ha mai abbastanza.