Una batteria alimentata dall’ossigeno nel sangue per pacemaker e neurostimolatori

I dispositivi impiantabili come pacemaker, defibrillatori e neruostimolatori hanno tutti una caratteristica in comune: quella di dipendere da una batteria per il loro funzionamento. Quest’ultima, purtroppo, ha un tempo di vita limitato: tipicamente la batteria di un pacemaker deve essere sostituita ogni 6-10 anni attraverso un intervento chirurgico. In futuro, però, potremmo avere a disposizione batterie bio-compatibili alimentate dall’ossigeno del sangue, che hanno, almeno in linea teorica, una durata potenzialmente illimitata. A mostrarlo sono i risultati di uno studio pubblicato su Chem, i cui autori hanno ideato e testato nei topi una batteria che si basa su questo meccanismo. Naturalmente serviranno ulteriori studi prima di poterla utilizzare a livello clinico, ma le osservazioni sui modelli animali sembrano incoraggianti.

Una batteria a base di sodio e ossigeno

Se riusciamo a sfruttare l’apporto continuo di ossigeno nel corpo, la durata delle batterie non sarà limitata dai materiali finiti delle batterie convenzionali”, spiega Xizheng Liu, che ha guidato lo studio ed è docente presso la Tianjin University of Technology, in Cina. Le convenzionali batterie a litio, infatti, dopo molti cicli di ossido-riduzione (il meccanismo sul quale si basa il funzionamento di qualsiasi tipo di batteria) tendono a deteriorarsi e a perdere la propria funzionalità. La batteria sviluppata dal gruppo di ricerca si basa invece sulla coppia sodio-ossigeno ed è composta da elettrodi costituiti da una lega di sodio e oro nanoporoso, entrambi materiali notoriamente bio-compatibili. L’anodo, in particolare, si basa su una lega di sodio, gallio e stagno, mentre il catodo è deputato a “raccogliere” l’ossigeno dal sangue che serve a mettere in funzione il sistema di reazioni chimiche e generare elettricità. La batteria è inoltre protetta da un film polimerico sottile e poroso che la incapsula.

I test sui modelli animali

Per testarne l’effettiva funzionalità e bio-compatibilità, i ricercatori hanno impiantato la batteria sotto la cute di topi da laboratorio. Dalle analisi è emerso che la batteria è in grado di produrre un voltaggio stabile compreso fra 1.3 e 1.4 V, con una massima densità di potenza pari a 2.6 µW/cm2. Anche se, in realtà, è stato necessario attendere un paio di settimane a seguito dell’impianto affinché la batteria iniziasse a funzionare: “Eravamo perplessi per l’instabilità della produzione di elettricità subito dopo l’impianto”, spiega Liu. “Abbiamo scoperto che dovevamo dare alla ferita il tempo di guarire, affinché i vasi sanguigni si rigenerassero intorno alla batteria e fornissero ossigeno, prima che la batteria potesse fornire elettricità stabile”. Una scoperta interessante, prosegue il ricercatore, perché significa che la batteria può aiutare, fra le altre cose, a monitorare la guarigione della ferita.

E nonostante la potenza che al momento è in grado di generare non risulti sufficiente per alimentare dispositivi medici, gli esperimenti dimostrano che il concetto è corretto e attuabile: è possibile sfruttare l’ossigeno del sangue per alimentare una batteria e produrre elettricità. Dal punto di vista della bio-compatibilità, i topi non hanno mostrato segni di infiammazione e sono stati in grado di metabolizzare e smaltire senza evidenti reazioni avverse i prodotti delle reazioni chimiche legate al funzionamento della batteria, come gli ioni del sodio, ioni idrossido e piccole quantità di perossido di idrogeno.

Per il futuro, il gruppo di ricerca prevede di esplorare l’utilizzo di materiali ancora più efficienti per la costruzione degli elettrodi, per tentare di aumentare la potenza della batteria.